Piante graminacee o culmifere (Targioni-Tozzetti, Cenni)
Sommaire
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Triticum
Fra i vegetabili adunque che più direttamente sono ricercati dall'agricoltura nostra, e sono di necessità indispensabile, noi cominceremo dalle graminacee, fra le quali vi è il grano o frumento (Triticum sativum), noto ed in uso fin dalla più remota antichità, ricordandosi nella Bibbia (1) col nome di Khitah o Chitta, e che formava parte di ciò che i Greci dicevano sitera, ed i Latini frumenta, comprendendo sotto questi nomi generici tutte le piante culmifere, o che fanno paglia
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(1) Deuteronom. VIII, 8.
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atte a somministrare dei semi buoni a ridursi in pane. Per altro intorno al grano o frumento, relativamente alla sua prima invenzione, nulla può dirsi di preciso, essendo che 1’epoca della sua cognizione, cultura, ed usi, si perde nei tempi favolosi. Infatti tanto essa è remota, che fu dalle antiche e primitive nazioni attribuita a certi loro particolari Dei, a Iside, a Cerere, a Triptolemo ec. (1), ma neppure ora per quanto studio abbiano fatto i moderni botanici, si è certi del preciso paese originario di questo utilissimo cereale. Credesi esso spontaneo dell'Asia o dell'Affrica (2), e Strabone (3) attesta che è indigeno della regione dei Musicani contrada dell'Asia. Ma il Doureau de la Malle (4) più specialmente lo fa nativo dei contorni dell'antica Sythopoli o Nysa (Berthsan dei moderni, nella Giudea), lo che sembra poco probabile al Loiseleur de Longchamps, per essere quella una località troppo ristretta ; ed oltre a ciò perchè ne è stato trovato spontaneo e silvestre in Egitto, in Candia, ed in Sicilia, secondo il Fazzello (5) ed il Belli (6), ed oltre la Sicilia, ove pure lo asseri spontaneo l’Harting (7), trovasi salvatico anche in Sardegna, al dire del Bertoloni (8), il quale tuttavia non lascia di affacciare il dubbio, se realmente sempre vi fosse stato ; ma però crede più probabile, che tanto in Sicilia che in Sar-
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(1) Le antiche nazioni tributarono onori a vari Dei e Dee, da cui si credè ritrovato il grano, o protettane la coltivazione, come può vedersi in Iul. Pontederae, epistol. oc dissert. T. 1, p. 146.
(2) V. Ottav. Targioni-Tozzetti, lezioni d'Agric. T. I, p. 80.
(3) Geograph. L. 13, p. 127.
(4) Revue Médicale 1842. T. 3, p. 405.
(5) De rebus siculis dec. I, Lib. 1, c. 4.
(6) Honori Belli, epistol ad Cardinalem Clusinum, in Clusii varior. CCCXII.
(7) V. Continuazione degli Atti dei Georgofili, T. 15, p. 239.
(8) Flora italica, T. 1, p. 796.
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degna, vi fosse spontaneo, avanti che si cominciasse a coltivarlo.
Linneo (1) sulla relazione dell’Heintzelman, che lo trovò nei deserti dei Baschiri presso i monti Ural, lo credè originario della Siberia. L’Humboldt (2) lo ritrovò indigeno nella pianura del Wolga. Cosicchè è probabile che molte località possano essere considerate come la patria di questa preziosa pianta. Lasciando a parte qui l'opinione di coloro che credono essere le tante qualità di grano, che or si conoscono, provenienti da una sola specie, non meno che l’altro modo di pensare di taluni, che ne moltiplicarono soverchiamente le specie medesime, diremo che il tipo delle varietà o razze, più anticamente coltivate e conosciute dei tritici, che noi diremmo frumenti, vale a dire di quelle piante culmifere panizzabili, i di cui granelli o semi escono nudi dalle glume colla semplice trebbiatura, è quella specie la quale fu dai Latini denominata Robus, corrispondente al nostro gran duro, dopo del quale Columella (3) ne nota un'altra specie primitiva, detta Siligo, male a proposito tradotta da taluni per segala, e che sarebbe il grano nostrale di prima qualità, o come si espresse Plinio (4) siliginem proprie dixerim tritici delicias, di cui se ne conoscono altre due varietà principali, coi nomi di grano gentile e grano grosso, già coltivate in Italia da remoto tempo, con altre varietà ancora, come si rileva dai geoponici latini, e da Plinio specialmente, che enumera molte qualità di frumento in uso ai suoi tempi (5). Fra questi credo di non
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(1) Species plantar. 3.° edit. T. l, p. 126.
(2) Essai sur la geogr. des plant.
(3) De re rustica, L. 2, c. 6.
(4) Hist. natur. L. 18, c. 8.
(5) Hist. nat. L. 18, c. 7. - V. anche Giovanni Targioni-Tozzetti Selva di notizie ed osservazioni sul grano ec. nei suoi ragionamenti sull'Agricoltura Toscana, p. 122. Ed anche dello stesso : Sitolo-
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dover lasciare scordato quello che Plinio stesso nota (1) fra le specie fertilissime ramosum aut quod centigranium appellant, che sarebbe anche secondo l'opinione del Fée il Triticum compositum, il quale ai nostri tempi è stato molto commendato sotto il nome di grano a grappoli, o del miracolo, o dell’abbondanza (2). Dalla facilità, che hanno avuto alcune vere specie distinte di grani, di degenerare in una o in altra varietà e sottovarietà, secondo i luoghi, i climi, ed i terreni, ne sono venute le tante qualità di frumenti, che oggi giorno si conoscono ; sulla specificazione e recognizione delle quali, molta è la confusione, non potendosi chiaramente trovare l'epoca della introduzione nelle nostre campagne, nè l'origine loro precisa.
Oltre le suddette differenti e moltiplici qualità di frumenti panizzabili, abbiamo il farro, esso pure appartenente ai tritici, detto eziandio spelta (Triticum Spelta) rammentato nella Bibbia (3) col nome di cussemet ossia far (4), come, pure far, e triticum adoreum, lo chiamavano i La-
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gia ovvero raccolta di esperienze sulla natura e qualità dei grani ec. Livorno 1763, T. 1, - Manetti delle specie diverse di frumento e di pane ec. Firenze 1783, p. 6. - Ed intorno alle qualità di grani, V. Continuaz. degli Atti dei Georgofili, T. 15, p. 239, e per altre varietà più modernamente introdotte. V. Mazzuccato Memor. botan. Agrar. sopra diverse specie di frumenti. Padova 1807, 8.° - In quanto poi alle diverse qualità di frumenti coltivate dagli antichi e loro corrispondenza coi nostri attuali, V. Saggio istorico sullo stato e le vicende dell’Agricoltura antica, di Filippo Re, p. 186.
(1) Hist. nat. L. 18, c. 10.
(2) Questo grano, che sotto altri nomi ancora è stato lodato soverchiamente, è originario di Smirne e dell'Egitto, e non è specie distinta, ma varietà del grano grosso. V. Ottav. Targioni-Tozzetti, lezioni d'Agricol., T. 1, p. 89.
(3) Exod 9. 32, Genes. c. 9, v. 3l e 32.
(4) Il cussemet, secondo lo Scheuczero (Phys. Sacr., T. 2, p. 59, 60), nella versione svizzera della Bibbia è mal tradotto per rogger, che è la segala, dovendosi invece intendere la spelta o farro, zea dei Greci.
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lini, e che Ovidio (1) disse tuscum semen. Era noto anche prima questo farro ai Greci, ricordandolo col nome di olyra (ὁλῦρα) e zea (Ζειά), Omero (2) ed Erodoto (3) qual cibo anche per le bestie, e Teofrasto (4) come pianta frumentacea. E qui si noti che olyra e zea non erano che due varieià di farro, come lo avvertì Dioscoride (5), essendo la zea quel farro piccolo detto Triticum monococcum dai moderni, nativo della Tauride e delle colline del Caucaso. L'olyra fu creduta impropriamente dal Paucton essere il riso, e dal Paw la segale (6), ma è con più ragione il nostro farro o Triticum spelta. Il Dodoneo la crede il Triticum dicoccum, che Dioscoride pone col monococcum, qual seconda varietà della zea (7). Questo cereale, secondo S. Girolamo (8), era conosciuto dagli Egiziani col nome di thera o athera, voce colla quale Dioscoride (9) e Plinio (10), chiamarono una specie di farinata fatta coll'olira o colla zea, cioè col farro, il quale dalla Grecia fu trasportato ab antiquo in Italia, dove successivamente fu coltivato, e serviva per gli stessi usi cibarj, cui ora noi lo destiniamo. Che anzi Plinio (11) racconta che di esso unicamente i popoli del Lazio si servirono per circa 360 anni, prima che fosse trovata l'arte di fare il pane. Questo farro o spelta sembra originario della Persia, avendolo trovato spontaneo nella provincia di Hamadan nel 1782 Andrea Mi-
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(1) De medicam. facie. vers. 65.
(2) Iliad. L. 5, V. 196 - L. 8, v. 560. - Odiss. 4, 41.
(3) Hist. L. 6, pag. 120 edit. Amstel 1763. F. curante Valckenar.
(4) Hist. plantar., L. 8, c. 4 e 9.
(5) Mat. med., L. 2, c. 82.
(6) V. Fée note a Plinio. L. 18. Nota 105 e 122 nella traduzione francese, edizione di Pankouke.
(7) Mat. med. L. 2, c. 80.
(8) Quaest. in Genes. opp. T. 2, coll. 545.
(9) Mat. med., L. 2, c. 114
(10) Hist. nat. L. 22, c. 23.
(11) Hist. nat. L. 18, c. 7.
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chaux (1), da dove fino dai più remoti secoli deve essere stato introdotto nell'Egitto, poi in Grecia, quindi in Italia, come si è detto. E qui in proposito di questo farro si noti, che il nome di zea antico, non deve farlo confondere colla zea altro genere di graminacea così intitolato da Linneo, che sarebbe il granturco o siciliano (Zea mays), di cui parleremo più sotto.
Hordeum
L'orzo, fu a testimonianza di Plinio (2), il più antico nutrimento dell'uomo ; e dalla Bibbia (3) ove è indicato col nome ebraico di Scianghurà o Scengora, si rileva essere esso stato coltivato in Egitto 1500 anni prima della nascita di Gesù Cristo. Ippocrate (4), ed anche Teofrasto (5) annoverano tre specie di orzi allora conosciuti dai Greci, sotto il nome di crite, referibili : 1.° all'orzo comune (Hordeum vulgare L.) ; 2.° all'orzola o scandela Hordeum, cui sunt bini anguli di Plinio (6), (Hordeum distichum L.) ; 3.° e all'orzo maschio (Hordeum hexasticon L.), ossia a quella specie colla spiga di sei canti, che sarebbe l'orzo di cui spicae quaedam plures ordines habenl usque ad senos, secondo Plinio. Dell'orzo comune ve n'è una varietà a seme nudo, detto perciò orzo mondo. Dell’orzola parimente ve n'è una varietà essa pure a seme nudo, detta orzo di S. Lucia e orzo mondo ancora.
Tutti questi orzi sono indigeni delia Tartaria, e non nascendo spontanei in Italia, vi doverono esser trasportati da antico tempo, poichè tutti sono ricordati dai Geoponici latini.
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(1) V. Lamark. Encycl. method. Botan. T. 2, p. 560.
(2) Hist. nat. L. 18, c. 14.
(3) Exod. 9, 31.
(4) De morbis mulier. L. 3. - De vici. ratione L. 2. - De natur. muliebr. p. 571, edit. cum Foesio.
(5) Hist. plant. L. 8, c. 4.
(6) Hist. nat. L. 18, c. 7.
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Dicendo Plinio, hordeum Indi sativum et sylvestre, farebbe pensare che fosse indigeno delle Indie orientali, lo che non è. Secondo Moisè Corenense (1) l'orzo comune nasce spontaneo verso il fiume Araxe, ora Kur, nella parte orientale della Georgia. Il Wildenow (2) lo fa nativo delle vicinanze di Samaram, in Russia, e del pari in Sicilia. Ma si avverta che lo Jacquin, nega essere di questa isola, e che non lo mettono fra le piante spontanee dell’Italia nè il Gussone nella sua Flora Sicula, nè il Bertoloni nella sua Flora Italica. L'errore sarebbe nato dall’esser chiamata orzo comunemente nella Sicilia un'altra graminacea che vi è abbondantissima, e della quale parla il Sestini (3), e che è l’Aegylops ovata L., ben differente dall’orzo (4) e ciò secondo ancora quello che ne avvertono il Roemer e lo Schultes (5), i quali aggiungono essere originaria dell'Egitto una varietà di questo medesimo orzo comune, per la sua grandezza detto giganteo.
L’orzo mondo poi, fu trovato indigeno da Marco Polo in Balascha, provincia la più boreale delle Indie orientali (6).
Questa varietà d'orzo non pare che fosse conosciuta in Toscana a tempo del Mattioli, il quale la nomina come estranea a noi, dicendo, seminasene una specie in Francia, la quale chiamano orzo mondo, per uscire egli mondo dalle spighe quando si tribbia come fa il grano (7).
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(1) Geographia p. 360.
(2) Species plant. T. 1, P. I, p. 472.
(3) Lettere scritte dalla Sicilia e dalla Turchia. T. 5, lett. 5.
(4) Diodor. Sicul. al Lib. 5, lu cliiama grano salvalico dicendo, triticum agreste quod in Leontino agro aliisque Siciliae locis pluribus nascitur, e del quale il Seslini dice esserne usali i semi in luogo di grano dai Siciliani.
(5) System. Vegetabil. T. 2, 791.
(6) V. Ramusio, Viaggi. 2, fol. 10. a
(7) Discorsi in Dioscor. T. 1, p. 420, ed. in Fol. Venez. 1585.
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Ma per altro pochi anni dopo il Tatti lucchese, nei suoi libri d'Agricoltura (1), nomina l’orzo che nella triturazione si monda come il grano ; ed il Tanara (2), mentre dice esser raro l'orzo mondo di Francia, citalo dal Mattioli, e che ne incoraggia la coltivazione, nomina un altro orzo mondo che era hen conosciuto. Talmente chè resta dubbio qual sia quest'orzo mondo dei citati autori, se cioè la varietà a seme nudo dell'orzo, o dell'orzola. Comunque siasi però Pier Crescenzio (3) dice parlando dell’orzo : Item invenitur hordeum quod in trituratione mundatur, ut frumentum, lo che prova che almeno nel Bolognese, 1’orzo mondo vi era conosciuto e coltivato da qualcheduno, avanti il 1300.
La qualità detta orzola, scandela e spelta, è stata chiamata da Columella (4) orzo galatico, perchè secondo questo autore provenne dalla Galazia. Il Wildenow (5) dice che l’orzola è spontanea essa pure presso Samaram in Russia. L'orzo maschio o esastico, ignorasi da dove sia provenuto, ma è probabile che sia della Russia, della Siberia, o della Tartaria.
Evvi pure anco l'orzo perlato di Germania (Hordeum zeocriton L.) detto dal Trago (6), da Giovanni Bauhino (7) e da Gaspero suo fratello (8), riso di Germania, il quale brillato, serve agli usi della medicina e a farne minestre. Il rammentato Trago lo crede il
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(1) Dell'Agricoltura libri cinque, 1560, p 39.
(2) Economia del Cittadino in villa, L. 6, p. 425. Seconda edizione pag. 651.
(3) Opus rusticalium commod. - Lib. 3, c. 16. Pier Crescenzio nato a Bologna nel 1230, ultimò la sua opera sull'Agricoltura, dopo tornato dal suo esilio politico, cioè dopo il 1299, all'età di 70 anni, come egli stesso dice.
(4) De re rustica, Lib. 2, c. 9.
(5) Species plantar. T. 3, p. 473.
(6) De stirpium comment. L. 2, c. 23, p. 644.
(7) Hist. plant. T. 2, p. 429.
(8) Pinax 2, Prodrom. 4, Theatr. 21.
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tragon di Dioscoride (1), ed il far candidum di Columella (2) ; nel qual caso si potrebbe dire di antica coltivazione presso i Romani, senza poter accertare, nè da dove venuto, nè quando introdotto.
Avena
La vena (Avena sativa L.), la cui patria si pretende che sia l'Isola Ioan Fernandes presso il Chili (3), non si trova rammentata nella Sacra Scrittura ; sicchè pare che non fosse conosciuta dagli Egiziani, nè dagli Ebrei. Ma è descritta da Discoride (4) da Galeno (5), e da Plinio (6) sotto il nome di Bromos, e Bromus ; lo che ci fa certi che non dall'America fosse importata, sebbene si voglia, come sopra si è detto, originaria anche di questa parte del globo, ma piuttosto che provenisse molto anticamente dalle Indie orientali, o da altri luoghi dell'Asia, come resulterebbe da un passo di Galeno ricordato di sopra, nel quale dice, hoc semen in Asia est frequentissimum, et potissimum in Mysia quae est supra Pergamum, da dove portata prima in Grecia, lo fosse poi anche di là in Italia. La vena salvatica al contrario (Avena fatua L.) che è il Bromos (βρόμος) di Teofrasto (7) e non degli altri Greci, e che serve come foraggio fresco per gli animali, è originaria d’Europa, ed anche dell’Italia, ove spontanea abbonda nei campi, con altra a lei molto simile, cioè l’Avena sterilis, L. aegylops di Teofrasto (8) e di Dioscoride (9), ma ambedue confuse in una da Virgi-
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(1) Mat. med. L. 2, c. 115.
(2) De re rustica, L. 2, c. 6.
(3) V, Linn. Species plant. T. 1, p. 118.
(4) Mat. med. L. 2, c. 16 e L. 4, c. 140.
(5) De aliment. facult. L. 1. c. 14.
(6) Hist. natur. L. 18, c. 25.
(7) Hist. plant. L. 8, c. 9,
(8) Hist. pl. Lib. 8, c. 7 e 9.
(9) Mat. med. L. 4, c. 13.
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lio (1) e da Plinio (2), che le ritengono come sterili e dannose per i campi ; ed anche così credute da altri più recenti botanici (3). Altre avene più modernamente si è cercato d’introdurre nelle nostre campagne, fra le quali la vena di Tartaria (Avena tartarica Ard.) o (Avena orientalis Schreb,), descritta e fatta conoscere in Italia per la prima volta nel 1781 dal Prof. Pietro Arduino di Padova (4) come ottimo foraggio. Per altro lo stesso autore dubita che questa precisa pianta fosse stata descritta dall’Haller (5) sotto il nome di avena panicula heteromalla ec. Lo che è vero ; ma asserisce non esser mai stata coltivata in Italia. Il Wildenow non gli assegna patria alcuna, ma il Roemer e lo Schultes, la dicono nativa fra le biade e lungo le strade della Pannonia, dell'Austria, e della Wetteravia.
Un'altra specie pure di vena, cioè la vena nuda, o d'Inghilterra (Avena nuda L.) non era a testimonianza dello stesso Arduino conosciuta in Italia prima del 1779, epoca nella quale la descrisse e propose con 1’altra detta qui sopra, sebbene fosse stata ricordata dal Lobel (6) e dal Dodoneo (7) fin dalla metà circa del secolo XVI, e che per le notizie datecene da Giovanni Raio (8), fosse molto coltivata in Inghilterra verso la fine del XVII secolo, nell’estrema Cornovaglia, presso il promontorio di Land's End, da venderla allo stesso prezzo del grano. Il paese originario di questa vena era ignoto per Linneo e per il Wildenow ; ma il Roemer e
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(1) Georg. L. 1, vers. 153 e 226. - Eglog. 5, vers. 37.
(2) Hist. nat. L. 18, c. 17.
(3) V. Bertoloni, Flor.Ital. T. 1, p 693.
(4) Del genere delle avene. Memor. Padova 1786, 4.° pag. 7.
(5) Commentar. nov. Goetting. T. 6, p. 18.
(6) Icon. 32.
(7) Stirp.hist. pempt. L. 1, c 31, p. 511.
(8) Synops. method. stirp. britann. pag. 389, num. 6, edit. 3.°
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lo Schultes (1) dicono essere spontanea inter segetes in Austria, ubi colitur, lo che per altro non impedisce di muover qualche dubbio, che veramente sia indigena di quella parte dell'Europa.
Secale
La segala pare ad alcuni che sia stata conosciuta dalla più lontana antichità, poichè secondo il Pereira (2), sarebbe ricordata nel vecchio testamento ; lo che per altro è molto dubbio. Negli scritti di Teofrasto (3) secondo alcuni vi è indicata sotto il nome di tiphe, la quale a vero dire il Fée (4) riferisce piuttosto alla Festuca fluitans ; e se si dovesse valutare l'opinione del Paw (5), anche Erodoto l’avrebbe ricordata sotto il nome di Olyra. Della segale ne parla pur anche Plinio (6), ma per altro Catone, Varrone, Columella e Palladio non la rammentano, se pure come alcuni vogliono non debba essere la loro siligo, lo che è molto inverosimile, poichè il Mattioli (7) prova non essere la segala la cosa stessa della siligine, di cui già sopra abbiamo parlato. Ma in ogni modo quando la secale di Plinio, e la tiphe di Teofrasto fossero realmente la segale (lo che è molto inverosimile) essa sarebbe al più quella varietà a granelli scuri, come lo rileva il Dodoneo (8), la quale non è ora più in uso, perocchè si preferisce a lei la bianca o comune (Secale cerale), essendo assai migliore. La segale si vuole dal Clavio (9)
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(1) System. vegetab. T. 2, p. 669.
(2) Elements of mat. med. and. Therap. T. 2, p. 91O.
(3) Hist. plant. L. 8, c. 1. 2, 4.
(4) V. Fee, note a Plinio L. 18, T. 11, pag. 409, nota 217, ediz. di Pankouke. - Lo Sprengel, Hist. rei herb. T. 1, p. 21, crede che questa tiphe sia la segale, e che sia ricordata da Galeno fac. alim. 1, 313, sotto il nome di μικροῦς πυροῦς.
(5) V. Fée L. e. pag. 379, nota 103.
(6) Hist. nat. L. 18, c. 16.
(7) Discorsi In Dioscor. T. 1, p. 425.
(8) Hist. Frumentorum. Leguminum. ec. pag. 25.
(9) Histor. del gran Tamerlan. p. 103, ediz. di Madrid. 1782, 4.°
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nativa dell'Armenia, e da quasi tutti i botanici si dice originaria dei deserti del Caucaso. Ma forse questa credenza è nata dall'avere il Pallas nei suoi viaggi (1) trovato spontanea gran quantità della così detta dai Siberiani dikaia kokh, che vuol dire segala salvatica, la quale sebben molto simile alla segala, non è tale specie, ma bensi il Triticum litorale. Peraltro il Kock recentemente ha annunziato (2) di aver trovato la segala spontanea sulle montagne di Pout, non lungi dal Villaggio Dshmid, nel paese di Hemschin, sopra un terreno granitico a 5 in 6,000 piedi di elevazione, e l'avrebbe pur anche ricevuta dal signor Thirke raccolta sull'Olimpo.
Non si sa peraltro quando sia stata introdotta nella nostra agricoltura, ed il Re (3) crede che non fosse coltivata nell'Italia antica, cioè prima che i Romani passassero l'Appennino, e venissero nel Piceno, ossia nelle Marche. Il mio avo Giovanni Targioni-Tozzetti nei suoi viaggi per la Toscana (4), è di parere che la segala siasi cominciata a coltivare assai tardi fra noi, perchè egli dice di non averla trovata rammentata da Pier Crescenzi, che scrisse la sua opera sul fine del XIII e il cominciare del XIV secolo. Infatti nella prima edizione latina del di lui Opus rusticalium commodorum Libri XII, non si trova fatta menzione di segala ; ma al Lib. III, vi è il capitolo 12, intitolato de siligine, che poi nelle diverse volgarizzazioni fattene in italiano in differenti tempi e sotto variati titoli, è tradotto per segale ; lo che non è in regola, secondo ciò che ne pen-
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(1) T. 6, p 110.
(2) V. Linnaea, T. 21, p. 427, ann. 1848, Nouv. Bibl. de Genève 1818, p. 160. - Nuovi Annal. delle Scienze di Bologna, Luglio ed Agosto 1850, p. 149.
(3) Saggio Storico dell'Agricoltura antica, pag. 197.
(4) Ediz. 2.° T. 5, p 400.
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sano il Mattioli (1) lo Scaligero (2) lo Stapelio (3) ed il Bruyerino (4) ; e già superiormente abbiamo notato che siligo si chiamava dai Latini quella specie di grano primitivo, la quale costituisce il grano gentile comune. Vero è che nelle note alla traduzione fatta da Bastiano del Rosso, sotto il nome dell’Inferrigno, si vuole che Crescenzio usasse la voce siligo, in senso differente da ciò che la intendevano i latini antichi, e che perciò il nostro primo agronomo bolognese chiamasse siligo la segale. Marcello Virgilio (5) opina che l’olyra dei Greci fosse la nostra segale ; e dello stesso parere abbiamo notato di sopra che lo fu il Paw, mentre è invece una varietà di spelta o di farro, come già si è detto, e come lo dimostrò il Mattioli (6). Ma noi per il nostro oggetto lasciando a parte tal questione, noteremo piuttosto che in un istrumento di lega fra le Repubbliche di Firenze, di Genova, e di Lucca, contro quella di Pisa, dell'anno 1284, riferito da Flaminio del Borgo (7), si trovano fra le altre cose nominate, granum seu frumentum, hordeum, segale ec. E che in un trattato di pace fra la lega guelfa di Toscana ed i Pisani, del 1329, vi sono ricordati granum, secale, hordeum ec. (8) ; quindi la coltivazione della segala se non antichissima fra noi, vi era nondimeno nota da gran tempo.
Panicum, Setaria
Il miglio (Panicum miliaceum), Elymus (ἔλυμος) degli antichi Greci, del pari che il (panicum italicum)
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(1) Disc. In Dioscor. T. 1. p. 423.
(2) De subtilit. exercit. 292, pag. 368.
(3) Comment. In Theophrast. p. 951.
(4) De re cibaria, L. 5, c. 4, p. 250.
(5) Interpret. in Diosc. p. 114 tergo.
(6) Disc. In Dioscor. T. 1, p. 493.
(7) Raccolta di Scelti diplomi Pisani num. 3, p. 20.
(8) Flam. dal Borgo, op. cit p. 173, V. anche Giovanni Targioni Tozzetti, Viaggi, L. c.
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Cenchrus (Κέγκος) di tutti i Greci antichi, sono venuti dalle Indie nei tempi remoti, di cui non resta memoria ; ed il nome d’italicum dato dai botanici al panico comune, non è perchè sia nostro indigeno, ma perchè coltivato in Italia abbondantissimamente insieme col miglio, fin da tre secoli almeno prima dell'era volgare, secondo il parere di Filippo Re (1).
Sorghum
La saggina (Holchus Sorghum L.) detta anche sorgo, melica, e miglio indiano, sappiamo da Plinio (2) che fu portata in Italia probabilmente per la via del mar Rosso dalle Indie orientali a suo tempo, e circa dieci anni avanti che egli scrivesse la sua storia naturale, lo che corrisponderebbe press'a poco a cento anni prima della morte di Marco Aurelio, la quale avvenne nel 17 Marzo dell'anno 180 dell’era cristiana. Ma questa apparteneva a quella specie di seme nero, che fu detta Holcus niger, e che Plinio, e molti altri più moderni hanno confusa come varietà con altre saggine ; mentre quella comune, o a seme rosso, fra noi più ricercata, s'ignora quando fosse introdotta. Essa trovasi variare per i semi lisci e per il colore or rosso chiaro, or rosso cupo, or rugginoso, or giallastro, or bianco, e questa ultima di seme bianco, pare di più moderna data per noi, rammentandola il Mattioli (3) come ricevuta da Padova, e non anche nota al suo tempo in Toscana. Essa è stata riconosciuta da molti scrittori per quella specie, che il Belonio, sotto il nome arabo hareaman trovò verso il 1546, abbondantemente coltivata in Cilicia e nell’Epiro, e che disse non trovarsene fatta menzione dagli scrittori greci e latini ; es-
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(1) Saggio Storico dell'Agricoltura antica, p. 198.
(2) Hist. nat. L 18, c. 7. Milium intra nos decem annos ex India inventum est, nigrum colore, amplum grano, harundineum culmo.
(3) Disc. in Diosc. T. 1, p. 435.
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sere ignota ai Francesi ed agli Italiani ; avere una gran somiglianza colla saggina comune rossa, ma da essa differire soltanto per il colore bianco del seme (1). Il Forskael (2) la descrisse come specie nuova col nome di Holcus Durra, derivandolo dalla voce egiziana Dora o Durrach, colla prima delle quali è pur anche indicata da Rhasis (3). Linneo la considerò come una varietà a seme bianco della saggina comune (Holcus Sorghum), nel modo che lo era stata egualmente ritenuta dal Dodoneo (4). A questa specie di saggina l'Iablonski (5) riferisce la thera a athera degli Egiziani, ricordata di sopra, la quale piuttosto sulla fede di Dioscoride (6) e di Plinio (7), si deve considerare per una specie di farinata, fatta col farro, come già si è avvertito. Pare anche che questa saggina medesima sia quella, che nella Bibbia (8) è detta dachan. Taluni hanno referito a questa stessa saggina bianca il triticum bactrianum di Teofrasto (9) e di Plinio (10), e fra i moderni lo Sprengel (11) inclina a sospettare che tale fosse di fatti il grano battriano di foglie larghe quattro dita, così ricordato da Erodoto (12). Questa opinione è più verosimile di quella emessa da altri, i quali riferiscono al formentone o Mays, il citato grano battriano, sulla erroneità della quale credenza torneremo a dire qualche cosa più in basso.
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(1) Petr. Belon, Observ. L. 2, c. 100.
(2) Flor. Arab. p.l74.
(3) De re medica, L. 2, c. 2.
(4) Stirp. hist. pemptad., p 508.
(5) Opuscul. T. 1, p. 13.
(6) Mat. med. L. 2, c. Il4.
(7) Hist nat. L. 22, c. 25. Aegyptii alharam vocant.
(8) Ezechiel., 4, 9.
(9) Hist. plant. L. 8, c. 4.
(10) Hist. nat. L. 18, c. 17.
(1l) Hist. rei herbar. T. 1, p. 79.
(12) Hist. L. 1, pag. 91.
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Contuttochè peraltro il Belonio verso la metà del secolo XVI, si esprimesse che questa saggina bianca, o hareoman, fosse ignota ai Francesi ed agli Italiani, farò a questo proposito osservare, non curando i primi, che in quanto agli Italiani, abbiamo Pier Crescenzio (1), il quale parla, tanto della saggina rossa, che della bianca, come di cose conosciutissime a suo tempo ; sicchè quest'ultima saggina bianca, se non era coltivata in Toscana, stando a ciò che ne dice il citato Mattioli, lo era nondimeno in allora in Lombardia ben da più di due secoli indietro.
La saggina spazzola o spargola (Holcus saccharatus L.), di cui abbiamo nelle nostre campagne un’estesa coltivazione per farne granate, granatini, spazzole, ec. è originaria delle Indie orientali. Al dire del Rumphio (2) che si appoggia all'autorità di Plinio, questa saggina sarebbe stata importata in Italia col nome di milium indicum, la prima volta sotto il regno di Nerone ; ma bisogna peraltro osservare che il passo di Plinio (3), sul quale si fonda il predetto Rumphio, riguarda la saggina nera Holcus niger dei botanici moderni, di cui ho già dato un cenno superiormente ; tanto che resterebbe sempre incerto il tempo dell’introduzione fra noi della saggina spazzola, la quale certamente è delle Indie orientali, come già ho avvertito. Il nome poi di saccharatus, dato da Linneo a questo olco o saggina, siè perchè nei suoi fusti contiene dello zucchero, che da taluno è stato proposto estrarsi.
La saggina di Cafreria (Holcus Cafer, o Cafrum Ard.), perchè nativa e coltivata in questa provincia dell'Affrica, avente la spannocchia quasi a ombrella, composta di
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(l) Opus rustical. commod. L. 3, c. 17.
(2) Herb. Amboin. T. 3, p. 195.
(3) Hist. nat. L. 18, c. 7.
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molti racemi o pannocchie secondarie, coi semi bianchi, è al contrario di moderna data, poichè fu fatta conoscere in Italia nel 1775 dal Prof. Pietro Arduini di Padova (1), che ne ricevè i semi dall'Affrica, ma non ha avuto grande incontro, sebbene oltre al dar farina coi semi potesse somministrare zucchero col sugo dei suoi gambi, come lo disse lo stesso Arduini, e come poi più estesamente lo insegnò Luigi di lui figlio (2).
Il più volte rammentato Prof. Pietro Arduini (3) fece anche conoscere per il primo nel 1780 in Italia, un'altra specie di saggina, di grossa pannocchia ovale, a semi bianchi, la quale egli disse essere coltivata copiosamente nella Siria, nell'Arabia, nei luoghi montuosi del Libano, nelle isole orientali del Mediterraneo, ed oltre mare. Si conosce il nome di saggina turca, e per avere la sua spiga curvata, la disse Holcus cernuus, e la ritenne per nuova specie, come fu poi ammessa dai botanici posteriori, non avendola esso trovata indicata dagli scrittori, se pure non la confusero col Dora o saggina bianca, di cui sopra ho parlato. Ciò infatti accadde nel T. VIII degli Atti Elvetici, dove in una memoria vi è descritta questa specie, anche prima che lo fosse meglio dall'Arduino, ma però confusa col detto Dora.
La saggina in spiga detta panico indiano ed Holcus spicatus dai botanici, avente la pannocchia cilindrica, fitta, e con i semi piccoli e bianchi, è di moderna introduzione. Essa fu trovata coltivata abbondantemente nella Barberia ed in Asia, sotto il nome arabo di Droh,
(1) Del genere degli olchi o sorghi ec., Memoria ec., Padova 1786, 4.° ; inserita negli Atti dell'Accademia di Scienze, Leti. ec. di Padova, T. 1.
(2) Istruzione sull'olco di Cafreria 2.° ediz. Padova 1811, pag. 39. Idem descrizione di un nuovo metodo per estrarre lo zucchero dalla canna dell’olco di Cafrer. Padova 1813.
(3) Del genere degli olchi o sorghi ec., Padova 1786, p. 14.
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da Francesco Casati milanese, che ne dette i semi a Pietro Arduini, dal quale ne fu tentata la coltivazione in Italia l'anno 1785. Peraltro questa specie particolare di saggina, era già nota se non all'agricoltura, nella botanica certamente, poichè fu registrata nelle loro opere dal Dodoneo (1), col nome Panicum indicum e dal Clusio (2), che la chiamò Panicum americanum, dicendo di più, che fu per la prima volta portata in Europa dal Perù, senza avvertire la sua vera origine dalle Indie orientali, da dove sarà stata portata nell'America meridionale.
Zea
Il formentone (Zea mays), è un’altra utilissima graminacea, la quale ci è stata importata per coltivarsi nei nostri campi, come ora si fa abbondantemente, in epoca non remotissima. Infatti la prima volta che di essa ne è stata fatta menzione in Italia, si è dal Fiaschi, viaggiatore fiorentino alle Indie occidentali, il quale lo descrisse in una lettera mandata a Tommaso suo fratello, in data del 24 Gennajo 1533, dal porto di Valenzuela, come cosa a lui ignota, dicendo : « Qui non ci fa nè grano, nè vino, ma una certa cosa che la dicono Maise ec. (3) ». Dopo anche Francesco Carletti (4), che fu in America verso il 1594, racconta che essendo a Porto Belo nella Columbia, mangiò il pane (cosi egli dice), che gli Indiani fanno col maïs, che noi chiamiamo granturco. Sicchè dal contesto di questi due autori egualmente fiorentini, comparisce, che al tempo del Fiaschi non era conosciuto in Toscana il formentone, e che nel periodo dei sessanta anni circa che decorsero dalla lettera
(1) Hist. stirpium pemptad. p. 507.
(2) Rarior. stirpium per Hispan. observ. L. 2, 1576, 8.°
(3) V. Targioni-Tozzetti Viaggi per la Toscana ec., T. 5, p. 400, ediz. 2.a
(4) Ragionamenti sulle cose da lui vedute nei suoi viaggi alle Ind. Occid. ed Orient. pag. 42.
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del Fiaschi al viaggio del Carletti, il quale mostrava essergli noto sotto il nome di granturco, fu questo cereale introdotto nelle nostre campagne. Vero è che in Spagna Ferdinando Cortes, il quale nel 1520 conquistò il Messico, dette conto di questa derrata nelle sue lettere a Carlo V (1). Egli è dunque chiaro che questo formentone è pervenuto a noi dall'America, dove è indigeno, e non dall'Asia, nè dalla Turchia, come molti hanno creduto, supponendo che dalle Indie orientali fosse passato nell'Arabia, poi nella Turchia, e quindi nella Sicilia ; dal che il nome di granturco ora comune, usato anche in Francia, in Germania ed in Inghilterra, e di grano siciliano che gli conserviamo. I1 Fuchsio (2) ammette questa provenienza, almeno per la Germania ; ma Gaspero Bauhino (3), il Dalechampio (4) ed il Mattioli (5) ne rilevano l'erroneità, confermando esserci stato portato dall'America e non dall'Asia. Ed il Dodoneo, nato in Fiandra nel 1518, morto nel 1585, lo vidde a suo tempo trasportare in Europa, e diffondersi in molte Provincie (6). Il Gerard (7), dice esser venuto prima in Spagna, come è ben naturale il crederlo, avendolo conosciuto nell'America meridionale i conquistatori spagnoli ; sebbene 1’Hernandez (8), mandato nel Messico a
(1) V. Zanon, Dell'agricoltura, arti e commercio Lettere, T. 5. p. 227.
(2) Hist. stirpium, Cap. 319, pag. 824.
(3) Theatr. botan. p. 25.
(4) Hist. gener. plantar. T 1, L. 4, c. 2. p. 382.
(5) Disc. in Dioscor. T. 1, p. 416, dove dice : - Puossi ragionevolmente connumerare fra le specie del grano quello che malamente chiamano alcuni formento turco ; e dico malamente, perciocchè si deve chiamare Indiano, e non turco per esserci portato dalle Indie Occidentali, e non d'Asia nè di Turchia, come crede il Fuchsio.
(6) Stirp. hist. pemptad. IV, L. l. c. 26.
(7) The herbal, or gener. hist. of the plants, p. 82.
(8) Hist. rer. mexicanar. etc., curant. Rechio L. 7, c. 40, pag. 243.
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studiarvi le cose naturali da Filippo II, e dove si trattenne dal 1593 al 1600, si maravigli come gli Spagnoli a suo tempo, non l'avessero ancora a loro uso ridotto, trasferito e coltivato in Spagna. In quanto poi alla sua introduzione in Italia non sarei lontano dal supporre che dalla Spagna passasse in Sicilia, e di qui prendendone il nome, si estendesse nell’Italia superiore, ma più tardi che in Toscana ; poichè il Segni, nel suo trattato intorno alla carestia (1), parla di questo formentone, non come da lui veduto, ma sulla fede di Lorenzo Anania. Cosicchè, scrivendo egli nel 1602, è chiaro che fino a questo tempo non fu conosciuto nel territorio Bolognese ; oltre a che lo Zanon (2), appoggiandosi ad un documento da lui detto certo, fa sapere che non si conobbe nel Friuli questo grano siciliano, che dopo il 1610.
Ho già superiormente avvertito che taluni crederono che il formentone fosse il grosso frumento, che Teofrasto dice nascere in Asia al di là di Bactra, con i granelli della grossezza di un nocciolo d'oliva. Questa opinione, che dubitativamente emesse Giovanni Bahuino parlando del Trilicum bactrianum di Plinio (3), dal Cordo è affermata per certa ; sicchè per questi scrittori il granturco sarebbe nativo ed originario di Bactra, provincia dell'Asia. Quindi da ciò si dovrebbe inferirne, che detto formentone fosse di più antica provenienza, e dall'Asia soltanto. Ma lo Stapel, nei commenti a Teofrasto (4), lo nega affatto con giuste ragioni, e per di più il Dodoneo (5) ha chiaramente mostrato, essere il detto grano battiano per ogni conto diverso dal siciliano ; e già su-
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(1) Tratt. sopra la carestia e fame ec, Bologna 1602. Pag. 136.
(2) Dell’agricoltura, arti e commerc. Lettere T. 5, p. 285.
(3) Hist. nat. L. 18, c. 7.
(4) Pag. 936.
(5) Hist. stirp. pemptad. IV, L. l, c. 26.
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periormente abbiamo detto a cosa debbasi referire il grano battiano suddetto.
Laonde, per tutto quello che è stato qui esposto su tal proposito, non può rimanere alcun dubbio sulla provenienza del formentone o mays dall'America meridionale esclusivamente, e che non fu conosciuto nè coltivato presso i popoli antichi orientali, egiziani, greci ed anche latini. Come egualmente non può sussistere quanto dice il Ducange nel suo Glossarium alla voce melica, che il granturco fosse coltivato nel 1195, nel Vercellese, a Montiglio nel 1300, a Calignano nel 1301, e successivamente in altri paesi ; ed in pari modo è uno sbaglio anche, che come riferisce il Molinari (1) fin dal 1204 fossero dati i semi di granturco bianco e quello per seminarsi all’Incisa di Monferrato, col nome di Meliga, come sconosciuti fin d'allora, dovendosi piuttosto ritenere che questa melica fosse qualche varietà di saggina. Vero è che col nome di grano siciliano e ciciliano si trova ricordato in un MS. del 1320 da Domenico Lenzi biadajolo fiorentino, una specie di frumento o grano, il quale peraltro nulla ha che fare col formentone o mays, ed è una specie di grano duro comune che si portava dalla Sicilia a vendere alla piazza di Orsanmichele, come lo rileva il Fineschi (2) editore di quel codice ; lo che io noto acciocchè per l'identità del nome, non ne nasca sbaglio.
Oryza
Il riso è altra pianta graminacea la quale era ignota agli antichi Romani, poichè 1’oryza descritta da Plinio (3), avendo le foglie come egli dice carnose, si-
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(1) storia d'Incisa T. 1 p. 198.
(2) Istoria compend. di alcune carestie e dovizie di grano occorse in Firenze, cavata da un Diario MS. in cartapecora del Secolo XIV. Firenze 1767.
(3) Hist. nat. L. 18, c. 7.
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mili a quelle del porro, ma più larghe, e fiori porporini, non meno che l’oryza ricordata da Orazio (1), erano tutt'altra cosa del riso nostro comune, o Oryza sativa dei botanici, nè si sa a che pianta referire l’oryza degli antichi. Egli è vero che Teofrasto (2) dice che gli Indiani serunt potissimo quod oryzam vocant, statque magna parte temporis in aqua, effundit non spicam sed veluti jubam modo milii etc. parole che fanno ben conoscere essere questo il nostro riso. Ed anche Strabone (3) parla chiaramente della coltivazione del riso nelle stesse Indie, fatta nelle areole coll'acqua, e della sua sementa, non come di cosa da lui veduta, ma sulla autorità di Aristobolo : anche Dioscoride accenna (4) brevemente al riso come pianta frumentacea, e che nasce nei luoghi palustri ed uliginosi. Dal che se ne arguisce avere questi greci scrittori inteso parlare di questa graminacea come pianta esotica, ma da loro non conosciuta nè vista ; nel modo stesso che di tanti altri vegetabili indiani hanno fatto discorso, sulla fede altrui. Nè è da attendersi l'opinione del Paucton (5), il quale pretende che l’olyra dei Greci, che già abbiamo detto essere una specie di farro, fosse il riso, nè che questo corrispondesse al Bromos di Plinio come forse lo credè il Fée (6), supponendo che questo naturalista latino avesse voluto indicare col detto nome bromos, una graminacea esotica (7). Laonde dagli scritti dei summentovati autori non si prova che il riso fosse coltivato in Grecia, da supporre
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(1) Satir. 3, L. 2, vers. 115.
(2) Hist. plant. L. 4, c. 5.
(3) Geograph. L. 15.
(4) Mat. med. L. 2, c. 117.
(5) V. Fée, Note al Lib. 18 di Plinio, T. 11, p. 379, nota 105, ediz. di Pankouke.
(6) Nota 154, p. 391, alla traduzione francese di Plinio, ediz. di Pankouke.
(7) V. Plinio Hist. nat. L. 18, c. 18.
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che di qui passasse fra i Romani ; ed al contrario se ne deduce che lo conoscevano come merce trasportatavi. Resulta anche che avanti il 1400, il riso non formava oggetto di coltivazione agraria in verun luogo dell’Italia, ma che vi era semplicemente conosciuto come derrata forestiera, essendo tassato di una gabella insieme colle noci moscade, nello statuto di Vercelli, rivisto e riformato sotto il governo di Giovanni Luchino Visconti di Milano, verso la metà del secolo XIV, e stampato poi nel 1541 a Vercelli da Gio. Maria Pellipari. Il Denina (1) assicura lo stesso, e dice che sembra fosse qua portato a vendersi dalla Grecia. Vuolsi peraltro dal Gregory (2) che i Portoghesi venendo dalle Indie Orientali, abbiano trasferita in Europa la coltivazione del riso, e che gli Spagnoli l'abbiamo introdotta nel regno di Napoli, da dove passasse in Lombardia e nel Piemonte al principio del XVI secolo (3). L'Olivier de Serres (4) pretende al contrario che fosse portato il riso dalle Indie direttamente nel Piemonte, dove si cominciò a coltivarlo, secondo alcuni dal 1497 al 1505 (5). Difatti a Saluzzo fu dato mano a questa coltivazione, che dopo nel 1523 per causa di una epidemia fu proibita (6). A Novara vi è tradizione che vi fosse distribuito il riso per seminarlo nel 1521, dagli Spagnoli, quando Carlo V andò a prendere Milano ; e presso Verona a Zevio si sa, che lo cominciò a col-
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(1) Rivoluz. d'Ital. T. 2, Lib. 14, c. 11. Ved. anche Pagnini Pratica della mercatura, T. 3 e 4. - De Gregory De la culture du riz. etc., p. 12.
(2) De la culture du riz. etc., loc. cit.
(3) V. Delfico Mem, sulla coltiv. del riso nella provinc. di Teramo, 1783.
(4) Trait. d'Agricult. 1675, pag. 105.
(5) V. Gregory De la culture du riz., loc. cit.
(6) V. Lodovico della Chiesa Storia del Piemonte, 1777, Lib. 3, p. 143.
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tivare nel 1522 Teodoro Trivulzi milanese, comandante dell'armata Veneziana (1). Quindi non sussiste ciò che il Fumagalli (2) dice, che cioè i Milanesi avessero risaie nel XII secolo, non provandolo con verun documento ; e molto meno può esser vero che dai Consulti legali del Caroelli, resulti come dice il Biroli (3) che nel Novarese vi esistessero delle risaie fin dal VII secolo ; ed essendo falso ciò che il Carpani nella sua edizione degli Statuti di Milano riferisce al cap. 379, intorno ai pestatori di riso, poichè il Gregory consultando nella Biblioteca Ambrosiana detti statuti autografi del 1396, non vi riscontrò nulla intorno a questo soggetto, nè di risaie ha trovato fatta menzione che nel XVI secolo. Anche il Torres spagnolo nel suo Trattato sul riso (4) ne fa introdotta la coltivazione in Italia nel secolo XVI. Pier Crescenzio (5) nell’originale latino della sua opera ed in molte altre edizioni latine non parla del riso, ma nell'edizione latina di Basilea del 1538, che ha il variato titolo De agricultura omnibusque plantarum et animalium generibus libri XII, vi è nel libro III pag. 133, un capitolo intitolato De riso, ove dice : risum et ropellia sunt alba et grossa, che nelle molte versioni italiane si traduce il pisello ed il rubuglio è bianco e grosso ec. ; cosicchè confrontando anche il modo di coltivazione, si vede chiaro che quel de riso et risum, è un errore, il quale deve correggersi de piso et pisum, giacchè nell'edizione latina ove è il detto titolo de riso vi
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(1) V. Belli, Mem. seconda nella Raccolta degli Opuscoli di Cosimo Trinci. Venezia 1768. - Maffei Storie. - Gregory, De la culture du riz. p. 12.
(2) Antichilà longobardiche T. 2.
(3) Del riso : Trattato econom. rustico ec., Milano 1807, p. 29.
(4) Trattato istor. ed econom. della natur. spezie, pregi, paesi di origine e propagazione, usi fatti e che si possono fare del riso ec. Venezia, 1793, 4.°
(5) Opus rustic. commod. L 3, c. 20.
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è la figura in legno del pisello, che il riso in latino è detto oryze, e che dal Crescenzio nell'originale latino, come ho sopra notato, non vi è nominato. Ma al contrario nella traduzione italiana stampata a Venezia nel 1511, non meno che in quella di Bologna del 1784 in 2 vol. in 4to., fatta dall’Inferrigno, ossia da Bastiano de Rossi, vi è al libro terzo, l'ultimo capitolo intitolato del riso, del quale non si parla che in riguardo ai suoi effetti mangiandolo, e nulla della di lui coltivazione si dice ; ma questo articolo è apocrifo ed aggiuntovi da uno dei più antichi traduttori, e ricopiato dagli altri, come lo rileva anche il cav. Iacopo Morelli (1).
In Toscana fu cercato di stabilire delle risaie nel piano di Pisa, da un tal Leonardo di Colto de Colli cittadino pisano, come si rileva da un documento del 1468 riferito da Giovanni Targioni-Tozzetti (2), il quale è una domanda di assicurazione dell'uso dell'acqua proveniente da varj luoghi, per servizio delle risaie che voleva stabilire. Cosicchè sebbene non si sappia, se i Priori e Gonfaloniere di Giustizia del Popolo Fiorentino, cui la petizione era diretta, accordassero quanto voleva il detto Leonardo di Colto, e se le risaie vi fossero fatte, resulta tuttavia che in quell'epoca del 1468, si conosceva e si voleva praticare la coltivazione del riso in Toscana. Questa industria bensi in tempi più a noi vicini fu pensato di attivarla in alcune località, come nella provincia senese, sotto il Granduca Francesco I de’Medici, secondo che risulterebbe da una lettera scritta allo stesso Granduca, ed esistente nell'Archivio Mediceo (3). Ma per altro più
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(1) V. la nota all'elogio di Pier Crescenzio, detto da Filippo Re ec., Bologna 1812, pag 43.
(2) Viaggi per la Toscana, T. 12, pag. 217.
(3) V. Rapporto della pubblica esposizione dei prodotti naturali e industriali della Toscana, fatta nel 1850, pag. XXXIV dell'Introduzione.
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tardi nei poderi della Regia Villa del Poggio a Gajano, le risaie furono messe in attività di cultura sotto Ferdinando I de’Medici circa la fine del secolo XVI, e vi rimasero fino al 1806, epoca nella quale una porzione fu ridotta ad altro genere di coltivazione, e poi nel 1810, non essendo il prodotto che ne veniva, proporzionato alla spesa, furono abbandonate, e nel 1815 furono tutti quegli appezzamenti di terra appoderati, e ridotti a cultura asciutta, con qualche vantaggio per la salubrità dell'aria di quei contorni. Anche nel Lucchese sul principio del XVII secolo vi furono introdotte le risaje, quindi proibite nel 1612. Lo stesso avvenne nel 1840 a Massaciuccoli e nel padule di Porta presso Pietrasanta, ma due anni dopo furono soppresse sul timore del danno all'aria di quei luoghi circonvicini. Cosicchè tal coltivazione fra di noi non ha avuto gran seguito, come al contrario lo è stato nella Lombardia, e ciò principalmente per i timori di danno alla salute pubblica. Per impedire questi inconvenienti, fu proposta la coltivazione di una qualità di riso detto secco, perchè si diceva nascere nelle colline all'asciutto come il grano. Di questo riso ne parlarono il Poivre nel 1750, ed il Padre Horta Gesuita nel 1765, e verso queste epoche fu sperimentato in vari paesi dell'Europa, ma senza successo ; quindi nel 1510 si tornò a proporlo come vantaggiosissimo, ma non riuscendo senza le irrigazioni, per cui male gli si conveniva il nome di riso secco, fu lasciato in oblio (1).
Saccharum
Tra le graminacee abbiamo anche la canna da zucchero (Saccharum officinale), la quale è pianta delle Indie orientali trasportata di là nell'America meridionale (2), dove la coltivazione ne è ora cosi immensa-
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(1) V. Humboldt, Voyag. aux regions equinoctial. etc. T. 2, p. 91.
(2) Vedi Lasteyrie, Sur la cult. du riz en France. 8.° Extr. du Moniteur num. 173 an. 1811.
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mente estesa. Furono coltivate le canne da zucchero in Sicilia, come luogo di clima caldo (1) portatevi dai Saraceni, e si vuole parimente che lo fossero nella Calabria, al dire prima di tutti del Porta (2) ; su di che lascerò di rammentare le contrarie opinioni dell'esservi o non esservi state realmente coltivate, le quali si suscitarono fra il Nocca, il Bettoni, ed il Re (3), e ricorderò soltanto che Francesco I de’Medici, il quale regnò dal 1574 al 1587, tentò d’introdurne in Toscana la coltivazione (4), ma senza successo, atteso la troppa diversità del nostro clima, con quello delle regioni originarie di tal vegetabile.
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(1) V. Filippo Re in Brugnat. Giorn. di fisic. chim. stor. nat., T. 5, p. 447. - Cirillo, Fundam. botan. Neapol. 1787, p. 132.
(2) Villae, Lib. XII, L. 11, c. 17, p. 903.
(3) V. Brugnatelli, Gior. fis. chim. stor. nat. ec., T. 5, p. 275 e 447. - T. 6, p. 60. - Gagliardo. Lettera colla quale si dimostra che le canne di zucchero furono coltivate nei secoli XV e XVI, nella Calabria, inserite negli Annali d'Agricoltura Italiana T. 22, p. 140.
(4) V. Adriani, Esequie del Granduca Francesco I.